L'oscurità, la selva avvolgente sul corpo sudato, un cielo cupo capace di intontire il senso dell'orientamento, la terribile frustrazione causata dalla dilatazione del tempo; un passo, un minuto, un passo, due minuti, un passo, quattro minuti; Thule cominciava a credere che non sarebbe mai giunto a destinazione.
I rami lo afferravano per le braccia, le foglie lo trattenevamo, le radici lo intralciavano nel cammino. Doveva semplicemente andare dritto, seguire il tenue bagliore della luna del tramonto, la piccola Ghana, figlia di astri troppo insignificanti per dare a lei un ruolo importante nelle vicende del cielo. Doveva semplicemente andare dritto. Ghana appariva ai suoi occhi, poi spariva, le fronde la nascondevano, e gli alberi apparivano tutti uguali, l'uno all'altro, e il percorso cominciava ad avvolgersi su sé stesso, dando la sensazione di cambiare rotta, per lo meno fino a una nuova apparizione dell'astro.
Doveva essere svelto. Aveva poche ore per giungere a destinazione, e ancor meno prima che la luna più brillante, Sopha, abbagliasse la piccola Ghana con il suo volto pallido e abbacinante. Perdere la vista di Ghana avrebbe significato perdere il faro guida, e perdere per sempre il proprio sentiero in quella selva quasi impenetrabile.
Doveva concentrarsi. Doveva ignorare i rumori alle sue spalle. Doveva continuare a camminare. Doveva seguire il richiamo di Ghana. Lo doveva a sé stesso, alla sua famiglia.
Eppure Thule percepiva lo sguardo delle belve. Non alle sue spalle, bensì ovunque attorno a lui. Sentiva quel fremito, la paura, il desiderio quasi incontrollabile di iniziare a correre.
Correre significava perdersi. Correre significava morire.
Doveva camminare, continuare lungo il percorso segnato dalla piccola luna. E doveva fare presto.
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